Antonio TAJANI – Vicepresidente della Commissione europea, responsabile per l’Industria e l’Imprenditoria
Rappresentanza a Milano della Commissione / Milano
Milano, 4-2-2013 — /europawire.eu/ — INTRODUZIONE
Dopo aver aperto a Roma il 5 ottobre la campagna europea voluta da Parlamento e Commissione Ue sull’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento, sono lieto di partecipare a questo secondo evento a Milano.
La direttiva, approvata nel febbraio del 2011, è un tassello essenziale per completare il Mercato interno e ripristinare condizioni normali di credito nell’economia, oltre a rappresentare una delle priorità dello Small Business Act a favore delle PMI. Pagamenti rapidi in tempi certi contribuiscono, difatti, a creare un clima di fiducia per investimenti e commercio Ue, specie per le PMI, le più esposte e vulnerabili alle dilazioni di pagamento.
L’attuazione della direttiva assume dunque un rilievo essenziale nella strategia europea per uscire dalla crisi, essendo tra le misure più efficaci nel brevissimo termine per rilanciare la crescita. Per questo, sebbene il termine ultimo per recepire la Direttiva sia il 16 marzo 2013, la Commissione ha chiesto agli Stati di anticipare l’attuazione. Io stesso ho sollecitato con due lettere i ministri competenti in tal senso.
Sono quindi lieto che l’Italia abbia attuato con anticipo la direttiva anche se, come ho avuto modo di indicare in una lettera al Ministro Passera, restano ancora alcune ambiguità da chiarire nel testo del decreto.
Il motivo dell’urgenza è sotto gli occhi di tutti. Ogni settimana migliaia d’imprese chiudono, si perdono posti, cresce il disagio sociale. Molte aziende fallite erano fondamentalmente sane. Forse molte di esse sarebbe ancora attiva con un fisco più sostenibile, meno ostacoli burocratici, più accesso al credito e, soprattutto, se lo Stato avesse pagato in tempo i suoi debiti.
RIPARTIRE DALLE IMPRESE
Le tensioni sociali in molti paesi Ue sono anche legate a una politica di austerità che sembra peggiorare i problemi anziché risolverli. In parallelo, non viene ancora percepito un disegno che possa ridare la speranza.
I milioni di posti persi, i mille miliardi di PIL bruciati e l’emorragia d’imprese sono, prima di tutto, il risultato della progressiva perdita di base industriale, accelerato dalla crisi, ma già in atto da tempo. Per cui, a causa di mancate scelte ed errori, l’Ue è sempre meno un luogo dove conviene investire e fare industria.
L’80% dell’innovazione avviene nell’industria; e per ogni posto nel manifatturiero se ne creano fino a due nei servizi. Dal manifatturiero dipende, inoltre, il 75% dell’export Ue. Per cui per tornare a crescere ed essere competitivi dobbiamo invertire questo processo di declino.
Per questo il 10 ottobre ho presentato una strategia per re-industrializzare l’Europa, passando dall’attuale 15.6% al 20% di PIL legato al manifatturiero entro il 2020.
Tre settimane fa abbiamo anche approvato il piano per promuovere l’imprenditorialità, essenziale per creare occupazione, visto che l’85% dei nuovi posti vengono dalle PMI e, in particolare, dalle 4 milioni di nuove imprese avviate ogni anno.
Entrambi queste strategie hanno tra i loro pilastri l’accesso ai capitali, senza i quali non è possibile innovare e assumere.
L’UE DICE BASTA AI RITARDI DI PAGAMENTO
Malgrado le iniezioni di oltre 1000 miliardi di liquidità della BCE un’impresa su tre non riesce ad ottenere il credito richiesto. In molti Stati membri, per far fronte alla crisi le banche hanno chiesto indiscriminatamente il rientro di fidi contribuendo al dissesto dell’economia reale; e ora stentano a erogare credito, se non a condizioni restrittive.
La situazione è particolarmente grave in alcuni paesi, tra cui l’Italia, dove la percentuale di chi non riesce ad avere il credito e il livello dei tassi sono sensibilmente più alti della media europea. Ad esempio, se una PMI tedesca o francese paga il denaro rispettivamente 2.9% e 2.2% quella italiana almeno il 4.5%.
In questo contesto drammatico, alcuni Stati continuano a ritardare i pagamenti, accumulando debiti scaduti per 180 miliardi nei confronti della imprese. Il 56% delle imprese europee sostiene che i propri problemi di liquidità sono principalmente dovuti al ritardo con il quale le loro fatture vengono pagate. A volte i debitori sono altre imprese, ma molto spesso è il pubblico che non onora i propri impegni nei termini.
Esiste poi un divario fra nord e sud che nuoce all’integrazione del mercato unico: nei paesi del sud i pagamenti fra imprese richiedono in media 91 giorni, contro una media di 31 giorni nel nord dell’Europa. Ma il dato più drammatico è quello di 1/3 dei fallimenti causato dai ritardi di pagamento.
I ritardi della Pubblica Amministrazione sono inaccettabili: se è legittimo riscuotere tempestivamente i tributi, altrettanto doveroso, anche moralmente, è pagare i debiti alla scadenza, evitando la chiusura di aziende sane.
Per porre fine a questo malcostume la direttiva sui ritardi dei pagamento prevede l’obbligo per gli enti pubblici di pagare entro 30 giorni, pena interessi di mora superiori all’8%. Salvo eccezioni giustificate ed esclusivamente limitate al settore della sanità, alle imprese pubbliche o nei casi in cui ciò sia giustificato dalla natura del contratto o da talune sue caratteristiche, ad esempio quando si applichino procedure di appalto specifiche come il dialogo competitivo. In questi casi eccezionali, da interpretare quindi in modo restrittivo, lo Stato può decidere di pagare massimo a 60 giorni.
La possibilità di deroga nel settore sanitario è dovuta al fatto che in molti Stati i servizi sanitari e gli ospedali pubblici pagano con medie tra i 250 e i 600 giorni. Durante l’iter di approvazione della direttiva alcuni paesi temevano che un termine di pagamento di 30 giorni fosse troppo breve. Consiglio e Parlamento Ue hanno, quindi, concordato questa possibilità di deroga. Lo Stato che stabilisce termini più lunghi è, comunque, tenuto a inviare una relazione alla Commissione che dovrà elaborare una valutazione del sistema entro il 2016-2017.
In proposito tengo a sottolineare che la possibilità di deroga a 60 giorni che appare come generalizzata nel decreto attuativo italiano presenta rilievi di incompatibilità con il dettato della direttiva e va quindi al più presto chiarita per evitare una procedura d’infrazione. Stiamo lavorando insieme alle autorità italiane per definire ogni aspetto problematico.
PAGAMENTI PUNTUALI PER FAR RIPARTIRE L’ITALIA
L’Italia, ancor più dell’Europa, ha urgente bisogna di un contesto meno ostile al business. Altrimenti invece di attirare investimenti e nuove imprese continueremo a farli fuggire. Siamo al 42 posto nella classifica sulla competitività globale del World Economic Forum. E nel rapporto sulla competitività industriale che ho presentato a ottobre, pur rimanendo il secondo paese manifatturiero, risultiamo sopra la media solo per 7 indicatori su 30.
Ad esempio, la produttività del lavoro su una scala di 100 si ferma a 48, contro i 67 della Germania; solo il 30% del PIL viene dall’export rispetto al 50% tedesco; l’innovazione è insufficiente, 5 su 10, 2 punti in meno dei paesi scandinavi; l’elettricità costa il doppio che in Francia; la qualità delle infrastrutture è sotto la media; solo 3 paesi hanno contesto peggiore del nostro per fare impresa.
Sono questi i veri “spread” che hanno determinato la crisi economica e le tempeste sull’eurozona che, pur avendo la stessa moneta, ha livelli di competitività molto diversi.
Ma tra tutti questi “handicap”, quelli percepiti come più insopportabili dalle imprese sono pressione fiscale e ritardi di pagamento. I due fenomeni sono legati e, purtroppo, vantiamo il triste primato europeo in entrambi.
La pressione fiscale sulle imprese ha superato il 60%, 20 punti sopra quella tedesca e ben al di sopra la media Ue; lo Stato italiano paga in media dopo 180 giorni (con punte di oltre 600 in alcune regioni) a fronte dei 65 giorni Ue. E ha accumulato circa 100 miliardi di euro di debiti sui 180 complessivi dovuti alle imprese da tutte le P.A. Ue.
Di fatto, l’impresa finanzia il peso dello Stato due volte: con le tasse ed effettuando prestazioni non retribuite nei termini. Ricordando i servi delle gleba che nel medioevo dovevano, oltre ai tributi vari, prestare opere al feudatario affidandosi alla sua benevolenza. Il fenomeno dei ritardi genera, infatti, anche l’insidia della discrezionalità di funzionari o politici nel decidere che deve essere pagato primo o dopo.
Per eliminare questi due macigni che schiacciano letteralmente gli imprenditori, vi è un’univa via. Una severa cura dimagrante dello Stato che, oltre a pagare puntualmente, deve essere più efficiente e spendere meno riducendo rapidamente la pressione fiscale sulle imprese.
UN PATTO PER LA CRESCITA
In linea generale, la maggioranza dei pagamenti tardivi degli enti pubblici dipende da cattiva organizzazione, sciatteria procedurale. Quando un ente pubblico acquista beni o servizi, ha già iscritto al bilancio gli stanziamenti per quella spesa. Per cui, non dovrebbe essere difficile pagare puntualmente i creditori.
Ma in Italia vi sono regole contabili che consentono di iscrivere il debito ai fini del Patto di Stabilità solo al momento del pagamento effettivo, e non quando sorge l’obbligo giuridico di pagare alla scadenza della fattura. Questa regola, insieme al patto di stabilità interno, ha incentivato molte amministrazioni a rinviare i pagamenti per avere i conti, almeno formalmente, più in ordine.
E’, dunque, imperativo che le regole di contabilità e il patto di stabilità interno vengano rivisti in modo da non ostacolare l’applicazione della direttiva.
La decisione se applicare retroattivamente la direttiva con effetto anche sui debiti già scaduti, è lasciata alla discrezionalità degli Stati. Per l’Italia, dunque, resta il problema di smaltire il più rapidamente possibile l’arretrato, liberando cosi decine di miliardi che consentirebbero di pagare fornitori, evitare fallimenti e perdite di posti, fare investimenti, beneficare allo stesso erario. E che ci farebbero uscire dalla recessione.
Non è più accettabile la logica per cui le imprese possono fallire e i lavoratori perdere il posto per avere i conti formalmente più in ordine. O bloccare la spesa di fondi strutturali Ue già disponibili (che rischiamo di perdere se non impegnati), non aprendo cantieri e rinviando investimenti vitali.
E’ necessario aprire una riflessione sull’interpretazione dei vincoli del Patto di Stabilità e Crescita, che nell’ambito di regole contabile spesso eterogene tra i diversi Stati Ue, rischia di alimentare la spirale recessione – aumento di deficit e debito, già sperimentata. Non investire in innovazione e infrastrutture o far fallire le imprese per ritardi di pagamento, porta inevitabilmente a peggiorare i conti.
CONCLUSIONI
Europa e Italia devono considerare la crisi come un’occasione per cambiare, voltare pagina nei confronti di una sorta di fatalismo con cui si è accettata la perdita di base industriale; senza capire che cosi si logorava inesorabilmente la nostra capacità di crescere e di sostenere il modello sociale europeo.
E’ arrivato il momento per ragionare a un piano di rientro dei crediti delle imprese verso le P.A. in tempi certi e rapidi.
Penso, ad esempio, all’idea recepita in Spagna di compensare i crediti vantati verso qualsiasi amministrazione pubblica con le tasse dovute.
O anche a un’applicazione più flessibile delle regole contabili che consenta di non aggravare deficit e debito pubblico nel momento del pagamento di questi arretrati. In via eccezionale, si potrebbe ipotizzare pro-tempore una contabilità di bilancio separata per questi arretrati, esclusi “una tantum” dal calcolo dei parametri di stabilità.
O, ancora, una cartolarizzazione di questi crediti nella quale le banche, inclusa la Cassa Depositi e Prestiti, anticipano subito i pagamenti verso le imprese facendosi poi rimborsare in tempi successivi dallo Stato.
L’Europa più politica e attenta all’economia reale che stiamo costruendo deve essere capace di dare risposte concrete all’emergenza crescita. Quella più urgente per l’Italia è proprio la piena attuazione della direttiva e il rapido pagamento dei debiti arretrati.
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